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Pensioni, tagli e truffe. La riforma previdenziale del Governo Meloni (seconda parte)

Pensioni, tagli e truffe. La riforma previdenziale del Governo Meloni (seconda parte)

Politiche sul lavoro giovanile

Lo diciamo subito: chi pensava che il governo di destra avrebbe favorito i lavoratori precoci (coloro che presentano contributi prima del diciannovesimo anno di età) dovrà ricredersi, poiché le norme in proposito restano invariate. Evidentemente la propaganda delle forze di Governo serviva più che altro a indirizzare l’intera manovra verso un generale contenimento dei costi.

L’altro fronte è quello del riscatto dei titoli di studio. Generalmente conseguiti da giovani, questi possono essere convertiti (“riscattati”) in anni di contribuzione lavorativa (fin dal lontano 1974, D. L. 30/1974), validi ai fini del calcolo dei requisiti pensionistici, in quanto l’impegno per la formazione viene riconosciuto come impegno a fini lavorativi a prescindere dalla professione effettivamente svolta negli anni a seguire.

Il riscatto di lauree e dottorati avviene diversamente in base alle date in cui sono stati conseguiti: se al conseguimento del titolo era vigente il sistema retributivo il costo del riscatto va calcolato mediante l’applicazione di alcuni coefficienti stabiliti per legge (rapportati a vari parametri, come l’età anagrafica); se già vigeva il contributivo, invece, si applica semplicemente l’aliquota di contribuzione complessiva (circa il 33% dello stipendio lordo) alla retribuzione salariale lorda dell’ultimo anno di lavoro, ottenendo il costo del riscatto di un anno di studi.

Anche qui, nell’ottica di rendere complessivamente meno onerosa per l’INPS l’esistenza di lavoratori prossimi ad andare in pensione col sistema misto (lo ricordiamo: retributivo per le annualità lavorate fino al 1995 e contributivo per le successive), il Governo ha deciso di aumentare i coefficienti per il riscatto dei titoli conseguiti quando era in vigore il retributivo. Una norma decisamente iniqua, perché coloro che hanno riscattato la laurea 25 o 30 anni fa, subito dopo avere conseguito il titolo, si trovano ora in una situazione di maggior favore rispetto a chi (a parità di anni anagrafici e contributivi) non aveva operato questa scelta, non avendo magari i soldi per farlo.

Ma con questo Governo nessuno può dormire sonni tranquilli: quanti hanno riscattato il titolo di studio prima di una certa data, quando ancora vigeva il sistema retributivo, avranno un coefficiente di calcolo atto proprio a ridimensionare il peso economico di tale riscatto. In parole povere, si darà vita a un procedimento di calcolo svantaggioso rispetto a oggi, cosicché gli anni già riscattati contribuiranno in minor misura ad accrescere l’importo della pensione cui si avrà diritto. È del tutto evidente, perciò, che se da una parte i nuovi coefficienti sono stati pensati per rendere oneroso il riscatto e così allungare gli anni lavorativi, dall’altra si aumenterà la cifra necessaria ai riscatti non ancora effettuati.

Argomento per certi versi simile è quello del riscatto dei vuoti contributivi. La possibilità di coprire a proprie spese i versamenti contributivi di periodi durante i quali non si stava lavorando era stata introdotta dal D. L. 4/2019, art. 20, a nostro parere nel tentativo di limitare il buco di bilancio causato dalla sempre maggior diffusione di contratti precari (a tempo parziale, a scadenza, saltuari e stagionali), che lasciano disoccupate per alcuni periodi centinaia di migliaia di persone. Tale disposizione aveva validità fino al 2021 ed è stata “ripescata” dall’attuale Governo, con modifiche peggiorative.

Non sarà più possibile riscattare periodi di inattività lavorativa durante i quali era vigente il sistema retributivo; chi aveva già riscattato degli anni sulla base della legge del 2019, inoltre, si vedrà annullato il provvedimento e restituiti i contributi versati, generalmente al prezzo di grossi sacrifici. Un’attitudine alla retroattività delle norme, questa del Governo, molto pericolosa per la tenuta del sistema democratico rappresentativo. Non vorremmo che la guerra contro i lavoratori che hanno diritto al sistema misto diventi per un po’ un banco di prova per istituire nuove restrizioni democratiche nel prossimo futuro, mediante leggi che non annullano solamente le disposizioni precedenti, cosa che è nell’ordine naturale delle cose, ma anche i loro effetti.

Anche in questo caso il totale dei contributi da versare per ottenere il riscatto corrisponderà al 33% degli ultimi 12 mesi di stipendio, anziché a quelli immediatamente successivi agli anni di inattività (o a un loro parziale ricalcolo). Visto il costo piuttosto oneroso che ne consegue, il Governo prevede la possibilità di rateizzare l’importo (massimo 120 rate per minimo 30 € a rata).

Ulteriori modifiche peggiorative sono poste dal limite massimo di 5 anni riscattabili e dal fatto che il riscatto non sarà più deducibile al 50% ma solo detraibile, ossia: lo sconto fiscale sarà sul reddito da dichiarare, anziché sull’imposta. Ciò costituirà un piccolo vantaggio per chi ha scelto di affidarsi ad assicurazioni e previdenza private, che già consentono detrazioni sul reddito, ovvero un incentivo, per tutti gli altri, a imboccare quella stessa via.

Un’ultima piccola nota: nel settore privato, sia per il riscatto dei titoli di studio che per quello dei vuoti contributivi è possibile far reperire la quota da versare attingendo da eventuali premi di produttività conseguiti dal dipendente, al fine di ottenere uno sconto fiscale (sia per l’azienda che per il dipendente). Ed è proprio degli incentivi (alias “ricatti”) alla produttività sul posto di lavoro che dobbiamo, ahinoi, ancora parlare.

Politiche sulla produttività del lavoratore

La manovra rinnoverà lo sconto del 5% sulla tassazione dei premi erogati dalle aziende private (e dalle cosiddette “pubbliche economiche”, ossia aziende pubbliche non facenti parte in senso stretto dell’apparato amministrativo statale) in favore di dipendenti con reddito fino agli 80.000 €.

A essere agevolati non saranno indiscriminatamente tutti i premi aziendali ma solo quelli per la produttività (che presentino, cioè, «ammontare variabile e corresponsione legata a incrementi di produttività, redditività, qualità, efficienza e innovazione» e siano subordinati al raggiungimento di un obiettivo prefissato dall’azienda e misurabile tramite indicatori numerici). Infine, sarà necessario che tali premi facciano parte di accordi stipulati con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative (si tratta di una nozione giuridica, introdotta a partire dalla L. 549/1995, che determina l’esclusione di tutti i sindacati “minori”; la precedente nozione di sindacato “maggiormente rappresentativo” consentiva di includere tutte le organizzazioni che presentassero i requisiti minimi di estensione organizzativa sul territorio nazionale, partecipazione alle contrattazioni, diffusione sui posti di lavoro, ecc., indipendentemente dalla compresenza di sindacati più grandi; la modifica sembra adatta a scongiurare l’inclusione di accordi non funzionali ad accrescere utili aziendali e produttività), determinando di fatto l’esclusione di tutti quelli ottenuti al prezzo di faticose vertenze condotte col sindacalismo di base o autonomo. Tali accordi potranno prevedere la possibilità di erogare i premi sotto forma di pacchetti di welfare aziendale. In questo caso al lavoratore andrà l’equivalente dell’importo lordo del premio. Il guadagno, però, più che nelle tasche di questo finirà in quelle dell’azienda, che potrà risparmiare sui costi e, volendo, anche “mangiarsi” il lordo tramite contratti per la fornitura di welfare, stipulati con aziende esterne, appositamente gonfiati.

Ma come funziona il welfare aziendale?

Si tratta di un insieme di beni e servizi che l’azienda mette a disposizione dei propri dipendenti, stipulando accordi con soggetti terzi. In cambio riceve degli sgravi fiscali dallo Stato, che in questo modo partecipa ai costi con la finanza pubblica. Le aziende ci guadagnano soprattutto a livello di produttività; innanzitutto perché un robusto welfare aziendale in alcuni settori lavorativi può contribuire a migliorare la percezione del benessere e ad aumentare, per conseguenza, il tasso di produttività, ma poi soprattutto perché è possibile corrispondere una parte dei benefits al raggiungimento di determinati livelli di produttività.

Fra i beni e i servizi erogabili troviamo: concessioni di sussidi; borse di studio; contributi per attività culturali, ricreative, con finalità sociali; agevolazioni per prestiti e mutui edilizi; polizze sanitarie integrative; stipula di convenzioni per asili nido e scuole per l’infanzia; polizze sanitarie e spese mediche; previdenza complementare; buoni-acquisto per viaggi, carburante, per fare la spesa e via dicendo… Novità della manovra sarà la possibilità di includere il rimborso delle spese per l’affitto della prima casa, per gli interessi del mutuo sulla prima casa o per le utenze domestiche (in vigore dal 2022). La soglia massima di esenzione annua è di 1.000 €, 2.000 se con figli a carico.

A ben vedere, quella del welfare sul lavoro è una politica perversa, perché tende sempre di più a subordinare la soddisfazione dei principali bisogni di vita alla volontà dell’azienda. In questo modo lo Stato ottiene uno sgravio di responsabilità nei confronti del cittadino lavoratore e diventa più agevolmente in grado di depotenziare lo Stato sociale e la previdenza pubblica.

Per finire, la manovra intende mantenere il “bonus Maroni”, destinato a chi opta per la prosecuzione del lavoro pur avendo raggiunto i requisiti per il pensionamento. Si tratta di un versamento extra in busta paga da parte dello Stato, pari ai contributi da versare (9,19%). Una misura che si appiglia alle difficoltà economiche e materiali dei lavoratori anziani o dei loro cari, per convincerli a rinunciare anche alla propria vecchiaia. Un beneficio che, in fondo, risulta conveniente solo per chi è dirigente, percepisce uno stipendio alto e vuole rimanere al lavoro. Quest’anno, tra l’altro, risulterebbe vantaggioso «solo per i lavoratori che sono esclusi dalla applicazione del cuneo fiscale (oltre 35mila euro annui)». Dirigenti, per l’appunto.

Conclusioni

Il Governo sembra intenzionato a battere la strada della riduzione del costo delle pensioni, anziché quella della riduzione del numero di pensioni da erogare (raggiungibile tramite politiche che puntino decisamente sull’aumento dell’età pensionabile). Per come si sono delineati, anche gli interventi sulle forme di pensionamento anticipato sembrano principalmente orientati alla riduzione dei costi di quelle pensioni, che al loro posticipo (per quanto ovviamente le due cose siano legate).

L’accento sulla produttività può avere invece un significato strategico ed essere legato agli investimenti produttivi previsti dal Pnrr. Un aumento della produttività significa una riduzione del costo del lavoro e, pertanto, fa il paio con tali investimenti, rafforzandone gli effetti di implementazione economico-produttiva.

Emiliano Gentili, Federico Giusti e Stefano Macera

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